“A molti, individui o popoli, può accadere di ritenere, più o meno consapevolmente, che “ogni straniero è nemico”. Per lo più questa convinzione giace in fondo agli animi come una infezione latente; si manifesta solo in atti saltuari e incoordinati, e non sta all’origine di un sistema di pensiero. Ma quando questo avviene, quando il dogma inespresso diventa premessa maggiore di un sillogismo, allora, al termine della catena, sta il Lager. Esso è il prodotto di una concezione del mondo portata alle sue conseguenze con rigorosa coerenza: finché la concezione sussiste, le conseguenze ci minacciano. La storia dei campi di distruzione dovrebbe venire intesa da tutti come un sinistro segnale di pericolo.”
(Primo Levi, dalla Prefazione a Se questo è un uomo)
Tutti siamo a conoscenza di quanto è avvenuto nei campi di concentramento e sterminio, del livello più alto di odio, negazione della dignità, violazione dei diritti mai raggiunto dal genere umano.
Ne possediamo fonti scritte e orali. Abbiamo di fronte ai nostri occhi archivi, fotografie, prove tridimensionali, voci di ex prigionieri, libri, dossier, ogni cosa: abbiamo di fronte a noi la storia.
Eppure, ormai ogni 27 gennaio, ci ritroviamo a vivere un ricordo svuotato di senso. Sembra che la memoria non basti più.
A scuola ci dicono sempre che conoscere la storia è importante per imparare dal passato.
Lo stiamo facendo?
A quali condizioni ha veramente senso la Giornata della Memoria?
E se quello che è stato fosse ancora qui?
La storia si ripete e noi neanche ce ne accorgiamo. O siamo indifferenti. O alziamo muri.
Crisi umanitarie avvolgono il nostro continente nell’indifferenza generale: pensiamo alle condizioni di vita di migliaia di uomini accalcati sul confine croato o su quello polacco, ai migliaia di morti o dispersi nel Mediterraneo, alle atrocità che accadono nei Lager libici.
Non possiamo celebrare il passato separandolo dal presente.
Se l’Olocausto è avvenuto anche a causa dell’indifferenza, anche la nostra indifferenza alle attuali crisi umanitarie è complice. Ma noi questo non riusciamo a capirlo: non lo capiamo perché non si tratta di noi, non lo capivano nemmeno allora, perché non si trattava di loro, ma degli “altri”.
Rifaccio la domanda: a quali condizioni ha senso il Giorno della Memoria? Che cosa si può fare per impedire che tutto finisca in retorica, in cerimonie consumate in un giorno?
«Non dobbiamo dimenticare ciò che è accaduto per far sì che non accada più», sentiamo dire.
Iniziamo a pensare a come far sì che non accada più. Iniziamo a guardare al passato e al presente con gli stessi occhiali, a metterci nei panni degli altri.
Gli “altri” del passato e gli “altri” del presente.
Alessandra di Carlo, 2^B Liceo scientifico